Addio Dan Gurney, concreto visionario

Di Enrico Formento Dojot

Dan Gurney se n’è andato domenica scorsa, 14 gennaio a Newton Beach, Stato della California, a ottantasei anni per complicazioni di una polmonite, confortato dall’affetto della moglie Evi e della sua famiglia. Ci ha lasciato un grande pilota, un grande costruttore ma soprattutto un leader. Leader è colui che anticipa i tempi, che sa guardare avanti, che si mette alla testa di un movimento. Dan è stato tutto questo. Inizia nel 1959 subito con una Casa di prim’ordine, anzi “La Scuderia”, la Ferrari. Poi passa alla BRM e alla Porsche. Con Stoccarda si aggiudica il Gran Premio di Francia nel 1962: è il suo primo successo e rimarrà l’unico per la Porsche in Formula 1. L’anno giusto per il mondiale sarebbe il 1964, quando ottiene due vittorie ma le sue ambizioni vengono stroncate da guai tecnici. Ed ecco la prima intuizione, che condivide con due soli mostri sacri, Bruce McLaren e Jack Brabham: una scuderia propria e un’auto propria, vincente. Sembra un’utopia, o perlomeno un cammino arduo, ma Dan ce la fa. Fonda la Eagle, in omaggio al periodo vissuto tra i marines, e nel 1967 vince il Gran Premio del Belgio, con il propulsore Weslake. Il 1967 è un altro anno d’oro, che questa volta non ha un sapore agrodolce ma decisamente profumato. Coglie il successo alla 24 Ore di Le Mans, la gara che, per molti, vale una carriera intera e che ogni pilota sogna, inventandosi la celebrazione del trionfo con la bottiglia di champagne, diventata la regola da lì in poi. Completa l’equipaggio un altro fuoriclasse statunitense, A.J. Foyt. Gurney è alto un metro e novanta, una statura non certo da fantino, come la maggior parte dei colleghi; per questo la Ford GT 40 presenta un profilo curvo sul tetto, che verrà presto battezzato come “Gurney Bubble“. Dopo alcune stagioni in McLaren e in categorie americane come Nascar (cinque vittorie), Can Am (due vittorie) e Champ Car, che diventerà, anni dopo, la Cart, della quale fu tra i fondatori, con Roger Penske e altri, Dan, terminata la carriera di pilota, fonda la scuderia “All American“, con la quale coglie altri successi, numerosi (saranno settantotto) e di grande prestigio (500 Miglia di Indianapolis, 24 Ore di Daytona e 12 Ore di Sebring). A cavallo tra il 1992 e il 1993, ottiene diciassette successi consecutivi con la Toyota Eagle, aggiudicandosi i campionati piloti e costruttori. È sua anche una grande intuizione tecnica: un’appendice alare che aumentava la deportanza, a scapito di un leggero aumento della resistenza a livello aerodinamico (la “Gurney Flap“). Un vero leader, una pietra miliare dell’automobilismo: oggi si direbbe un visionario che, a differenza di tanti sognatori che non vanno oltre la dimensione onirica, ha realizzato ciò che potevano sembrare ai più semplici utopie.